MANGIATRICI DI UOMINI

Erika arriccia il naso, abbassa lo sguardo e inizia a giocherellare con le pieghe della gonna. “non posso credere che tu me lo abbia chiesto davvero…” un sussurro quasi impercettibile.
Sì, non avrei dovuto aprir bocca. Forse non si sente a suo agio quando i discorsi si fanno troppo diretti, magari preferisce scoprirsi con i suoi tempi, mostrare pian piano i lati di sé con cui si sente più a suo agio. Vuole essere lei a guidare il gioco.
Provo a sfogliare il mio manuale delle scuse, o perlomeno a tirar fuori una battuta per stemperare la tensione, ma niente: gli ingranaggi del mio cervello girano a vuoto.
Ancora qualche momento di silenzio; poi i suoi occhi color nocciola puntano sui miei come abbaglianti nella nebbia. Le labbra si distendono in un sorriso che vuole essere seducente, ma le guance colorate di rosso tradiscono un leggero senso di imbarazzo.
“Fai attenzione a quello che desideri” mi dice con voce sottile “potresti sbagliarti su di me”.
Alla luce soffusa dei neon, i suoi capelli biondi sembrano assumere una sfumatura argentea, un colore irreale quasi come l’atmosfera che regna nel locale, dove i pochi avventori siedono in silenzio, chini dietro i bicchieri da Martini, come statue di cerca in una stanza buia.
le note dei Radiohead risuonano debolmente dalla cucina, diffondendo nella sala un pulviscolo di leggera malinconia e sommessa inquietudine. Noi seduti al bancone sembriamo essere gli unici esseri vivi al mondo, gli unici a respirare e a emettere ancora calore.
Erika continua a guardarmi, sembra percepire la mia difficoltà e questo la sta rendendo più sicura, lo noto dal suo sguardo che ora appare quasi impertinente. Sbatte le ciglia e, continuando a sorridere, si avvicina al mio viso fino quasi a sfiorarmi le labbra. Mi sento travolgere dal suo profumo, un misto di spezie e fiori di campo, socchiudo gli occhi e la bacio con trasporto, quasi con violenza, sento il sapore delle sue labbra e lascio scorrere le mani lungo le curve dei suoi fianchi, sono quasi sul punto di perdere il controllo.
Poi lei rallenta, si allontana da me e si sistema sullo sgabello, gli occhi sempre fissi nei miei. Si aggiusta i capelli. “Rallenta, caro! Prima finiamo i nostri drink, poi forse andiamo in hotel”.
Oh, Dio, credo di aver bevuto troppo. La testa mi gira e sento le gambe formicolare come dopo un allenamento di corsa. O forse è questa ragazza a farmi girare la testa? Era tanto che non sentivo così, come un adolescente travolto da onde di eccitazione e bramosia. Sì, forse è per questo che mi sento così strano.
Mi volto verso il bancone e butto giù un altro sorso del mio whiskey, ha un sapore forte e torbato. Poi torno a guardare Erika che sta sorseggiando il suo bicchiere di chardonnay, è davvero molto bella, la sua pelle sembra più liscia, i suoi capelli più luminosi di come ricordavo. Poggia il bicchiere sul bancone e la vedo sorridere tra sé e sé.
“Dovevo finire di raccontarti la storia di mia nonna. Lo sai che ha vissuto per tre anni in Amazzonia, nel bel mezzo della foresta equatoriale?”
 “Ma dai? Avevi detto che aveva avuto una vita avventurosa, ma non immagino fino a questo punto”.
Distoglie lo sguardo, come ad andare a cercare un ricordo in qualche angolo nascosto della stanza. Poi torna a guardarmi negli occhi: “Non immagini fino a che punto…” bisbiglia flebilmente.
Stavolta sono io a distogliere lo sguardo. Occhi come gemme, che sembrano quasi brillare di luce propria, intensamente, vividamente. Lei mi accarezza leggermente la guancia. Un tocco caldo e delicato che mi porta ad alzare nuovamente lo sguardo su di lei.
Inizia a raccontarmi della nonna, ma fatico a seguire il suo racconto, in parte perché ipnotizzato dalla sua irresistibile femminilità, in parte perché il mal di testa sembra peggiorare, ora vedo doppio e sento brividi di freddo dietro la schiena. Accidenti!
A sommi capi, capisco che dopo essersi persa nella giungla a seguito di un incidente aereo, la nonna è stata in un certo senso adottata dalla tribù delle Shebas, o qualcosa del genere. Mi spiega che si tratta di un’antichissima popolazione che vive nelle profondità dell’Amazzonia, una tribù di sole donne, che le leggende descrivono come un covo di streghe e megere, cannibali, adoratrici dei demoni e dedite alla magia nera.
La nonna fu tratta in salvo da un giovane esploratore, che, innamorato della sua bellezza, la riportò in Europa con l’idea di prenderla in sposa. Purtroppo l’uomo morì poco dopo averla ricondotta in patria, ma nel frattempo era riuscito a metterla incinta.
Il dolore alle gambe sembra peggiorare, forse sono stato troppo tempo seduto.
Propongo a Erika di incamminarci verso l’albergo che ho prenotato per noi, magari una passeggiata potrà aiutarmi far passare questo maledetto senso di spossatezza.
Lei non risponde subito, sorride di nuovo con quel suo fare sbarazzino e disinvolto che tanto riesce a incantarmi. “aspettami fuori, faccio un salto alla toilette e sono da te”.
Pago il conto ed esco barcollando dal locale. L’aria fresca sembra darmi un po’ di giovamento alla testa, sebbene le gambe continuino a farmi male. Mammamia, come sto invecchiando! Accendo una sigaretta e faccio un paio di tiri, ma poi prendo a tossire e getto il mozzicone a terra. Nota mentale: non bere e non fumare troppo quando devi far colpo su una bella donna.
Un autobus si ferma alla fermata di fronte al locale. Alzo lo sguardo e mi basta un secondo per restare di sasso. Riflesso sui finestrini vedo la figura di un uomo anziano, all’apparenza di circa settant’anni. Gli occhi infossati e nascosti da pesanti rughe, i capelli radi e grigi, la pelle raggrinzita e cadente. Quel vecchio è vestito come me, e anche lui mi fissa allibito.
L’autobus sfreccia via, resto a fissare sbigottito la strada buia. Mi guardo le mani, che fino a stamattina erano le mani di un trentenne, e mi ritrovo a fissare degli arti rachitici attraversati da profonde vene nere. La testa mi scoppia più che mai. Sto impazzendo?
Erika esce di lì a poco. Lei invece sembra ringiovanita: la pelle liscia, il seno sodo, gli zigomi alti e perfetti. Mi guarda e percepisce il mio terrore. Mi sorride rassicurante e intanto si avvicina cauta. Per quanto terrorizzato non riesco a togliere lo sguardo da quegli occhi color nocciola. Dio come sono belli!



Dopo essersi nutrita. L’ultima delle Shebas si incammina lungo la strada, in quella cupa notte autunnale. Si sente piena di energie nuove e potenti. Ripensa per un istante agli anni trascorsi nella Giungla con le sue sorelle. È stato allora che ha imparato a nutrirsi del desiderio degli uomini e della loro virilità. Lo sguardo si fa imbronciato quando pensa alle persecuzioni che hanno dovuto subire, prima dalle tribù degli Indios, poi dai conquistatori portoghesi, infine dai cacciatori di streghe. Ora però sta vivendo una nuova vita. Ora tutto le sembra possibile.

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